GEMMA LA REGINA DEL TAJARIN ESCE IL LIBRO CHE RACCONTA UN MITO DELLA CUCINA DELLE LANGHE

Gemma, la “regina” del tajarin: esce il libro che racconta un mito della cucina di Langa

Si intitola “Gemma – La poesia dei tajarìn di Langa” il libro che sarà presentato giovedì 7 dicembre alle ore 18 presso il castello nella Sala delle Moschee.

I testi sono stati scritti da Luciano Bertello, Maurizio Crosetti, Piero Dadone, Luigi Sugliano e Giovanni Tesio con i contributi di Enrico Crippa, Margherita Oggero, Davide Palluda e Piero Soria e le fotografie di Bruno Murialdo e i contributi fotografici di Bruno Martina. Ma chi è Gemma? Gemma Boeri è nata a Roddino da famiglia contadina. E’ sposata e ha due figli, Marco e Daniele. L’esperienza partigiana del padre e la vita di campagna sono state fondamentali nella sua formazione. Ha imparato in casa i saperi e i contenuti della cucina casalinga di Langa. Nel 1986 prende in gestione il “Circolo” del paese, coronando il sogno di una vita e facendo in breve tempo di Roddino uno dei “santuari” della cucina tradizionale contadina dell’Albese. Nel 2005, sempre a Roddino, apre l’Osteria da Gemma, che conduce con il figlio Daniele e le nuore. I suoi tajarìn sono uno dei miti della cucina di Langa, tanto da meritare la foto ufficiale del Palio della Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba edizione 2017. 

Gemma è il simbolo delle osterie di Langa: generosa, genuina, semplice. Raduna persone di ogni età e di ogni ceto, sedendo fianco a fianco a vocianti gruppi di giovani e compunte coppie di anziani, manovali in canottiera e professionisti in giacca e cravatta, langhetti e turisti stranieri. Trattandoli tutti allo stesso modo. Anche il suo menù è il simbolo della più vera cucina casalinga di Langa: niente fronzoli, il gesto ripetuto all’infinito, quasi alla ricerca della perfezione. “Gemma – La poesia dei tajarìn di Langa” è il primo titolo della collana “I Saperi del fare. Uomini e luoghi nei paesaggi viticoli di Langhe-Roero e Monferrato”, attraverso cui la Sorì Edizioni si propone di dare contenuti al riconoscimento che l’Unesco, dal giugno 2014, ha tributato ai paesaggi e alla civiltà del vino di Langhe-Roero e Monferrato. Intende rendere omaggio ai personaggi, ai luoghi e ai saperi che, scrivendo pagine fondanti della cultura materiale di Langhe-Roero e Monferrato, hanno contribuito al riconoscimento Unesco. Si nutre dell’orgoglio di territorio e ambisce ad avere i caratteri di “progetto”, in quanto inserita nei disegni e nei dibattiti che animano il territorio. 

L’approccio non è quello classico dei libri di cucina, ma il racconto del “fare” di Gemma: la sua storia di vita, la sua Langa, la sua gente, le atmosfere che si respirano nella sua osteria. Le ricette, distribuite all’inizio di ogni capitoletto, sono quasi un dettaglio o una conseguenza. E’ un libro che si compone di tanti apporti e contributi, tutti di persone affascinate dalla cucina vera di Gemma e dalla sua Langa. Tra gli altri ci sono anche gli omaggi di due suoi colleghi ed estimatori: Enrico Crippa e Davide Palluda. A rafforzare l’idea che esiste una sola “alta cucina”: quella che ha un senso. Fondamentali sono poi le fotografie e, in particolare, il “racconto per immagini” che Bruno Murialdo ha fatto dei mitici anni del Circolo. Tra i vari apporti, ce n’è uno che vale la pena di rimarcare: quello dei “social plìn” raccontato da Piero Dadone. Si tratta del ruolo “sociale” che l’osteria di Gemma ha nella piccola comunità roddinese. Tutti i giovedì dell’anno, infatti, un numeroso gruppo di donne e uomini di Roddino (e non solo) si radunano per preparare gli agnolotti del plìn per tutta la settimana. Intanto che chiacchierano e lavorano, fanno comunità. E’ un aspetto che non ha uguali e che meriterebbe uno studio sociologico o una tesi di laurea. E per Gemma una laurea. La scelta di due giornalisti sportivi, Gigi Garanzini e Maurizio Crosetti, per la presentazione del libro risponde dunque al carattere di Gemma e della sua cucina. Gemma, infatti, è come un’atleta della cucina di Langa: esercizio, applicazione, passione, sacrificio, costanza, cura di ogni dettaglio, gesto ripetuto all’infinito, continua tensione al miglioramento. Il fare al meglio quello che si sa fare come filosofia di cucina e di vita. Insomma: il luogo e il personaggio ideali per l’inizio di una collana dedicata ai saperi del fare.

STORIA DELLA BARBERA “REGINA” delle COLLINE PIEMONTESI

STORIA DELLA BARBERA “REGINA” delle COLLINE PIEMONTESI

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Il vitigno “BARBERA”

Protagonista della viticoltura piemontese, il vitigno

Barbera è di gran lunga il più diffuso in tutte le aree

vitivinicole del Piemonte. Presente anche in modo

significativo nell’Oltrepò Pavese e nel piacentino,

dove assume altre denominazioni nel vino che ne

deriva, il vitigno è anche coltivato in modo meno

significativo nel Sud della penisola ed all’estero.

Recentemente un sondaggio ha rilevato che la

Barbera è il vino rosso più conosciuto tra il pubblico

di consumatori abituali o saltuari di vino.

Questa sua storia, che sicuramente interesserà i tanti

appassionati di enologia, è stata scritta da Gianluigi

Bera, noto storico e produttore vinicolo di Canelli

(Asti), autore tra l’altro di importanti volumi sui

monumenti e la storia di Asti e dell’Astesana.

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Le origini

Nel 1271 il bolognese Pier de’ Crescenzi , magistrato professionista, fu nominato giudice nella città di Asti. Era lo stesso personaggio che, una volta ritiratosi a vita privata nel 1304, avrebbe scritto in latino il Liber Ruralium Commodorum , cioè il più celebre trattato di agronomia, viticoltura ed enologia prodotto nel medioevo italiano. Fra le molteplici varietà di uva da vino che ricorda nella sua opera, il Nostro cita la Grissa, dicendo che è caratterizzata dai chicchi allungati, di color nero non molto intenso, dalla la buccia sottile, molto ricchi di mosto, da cui si ricava “..vinum optimum et servabile et potens valde..” ( vino ottimo, serbevole e molto potente) “..e questa è tenuta in grandissimo onore nella città di Asti e nei dintorni ” ma anche conosciuta e diffusa nei colli Bolognesi. Quell’uva Grissa (cioè “grigia”), tanto amata dagli astigiani del medio evo, non era certo il Nebbiolo, come ritenuto dai traduttori seicenteschi del Liber Ruralium , poiché già nel XIII secolo tale vitigno era noto ed apprezzato in tutto il Piemonte con il suo nome attuale. Era con ogni probabilità la Barbera, destinata ad affermarsi molti secoli dopo fregiandosi con il nome della Città e del territorio che in ogni epoca le furono fedeli in modo ammirevole.

Un nome sfuggente

In passato e fino a pochi decenni fa si riteneva che la Barbera fosse una varietà “giovane”, acclimatata in Piemonte solo nel corso del Settecento; la convinzione dipendeva dal silenzio delle fonti storiche conosciute, o, molto spesso, dal loro scarso utilizzo. Così anche se nel 1967 si scoprivano documenti datati 1514 attestanti vigne di Barbera nel Chierese, e Giovanni Dalmasso nel 1971 ne pubblicava altri relativi alla coltivazione di Barbera in Astesana nel 1609, testi anche autorevoli ancora oggi ne fanno partire la storia dal 1798 e dalla citazione che ne fece il conte Pergamo di Scandeluzza nel Calendario Georgico pubblicato in quell’epoca.

E’ evidente che le cose non stiano così, ma a parziale discolpa di eruditi e ricercatori bisogna anche far presente che, contrariamente ad altri vitigni piemontesi, la Barbera ama giocare a rimpiattino tra le memorie dei secoli passati. Vino più popolare e ordinario, proprio perché molto diffuso, si nasconde a lungo nelle infinite attestazioni di “vinum negrum” che riempiono i documenti locali tra X e XVII secolo; per un lunghissimo periodo è stato “..il fante dei vini piemontesi, pistapauta e scaccianebbie…” ( P. Monelli) , e i fanti, si sa, non vengono chiamati per nome.

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STORIA DELLA BARBERA “REGINA” delle COLLINE PIEMONTESI

Così nel medioevo le vigne astigiane erano piene di uva Grissa e di altre varietà modeste e innominate, usate per “IL VINO”, quello vero, quello serio, quello che è il contraltare ed il complemento del pane; poi c’erano i Nebbioli, le Malvasie, i Moscati, le Vernacce: tutta roba per fare vini di lusso, vini per i signori, vini da vendere e non da bere. Piace pensare a quella Grissa astigiana –bolognese come “nonna” della Barbera, che , guarda caso, ancora oggi è tenuta in “grandissimo onore” nei territori di entrambe le città.

Nel 1606 Giovanni Battista Croce, autore di un trattatello intitolato “Dell’eccellenza e diversità dei vini che nella montagna di Torino si fanno” cita ancora la “Grisa maggiore”, dicendola poco diffusa sulla collina torinese, e ben distinguendola dal Nebbiolo molto più apprezzato. Il fatto che in quegli anni il nome Barbera esistesse già, perlomeno in Astesana e nel Chierese, non esclude che il più antico termine “Grissa” o “Grisa” potesse ancora essere largamente usato come sinonimo. Del resto ancora nel 1798 il conte Nuvolone Pergamo scriveva dell’uva “..detta Barbera in Asteggiana, Ughetta nel Vercellese e canavese, Vespolina dai novaresi” : Nel 1816 Casimiro Zalli autore di un vocabolario Piemontese- Italiano-Latino-Francese, scriveva: “Barbera: specie di uva che si raccoglie specialmente nelle vigne di Asti; Barbarossa: sorte d’uva e vino nero, detto Barbera .

1514: la Barbera si rivela.

Come nel caso di molti altri vitigni antichi dunque, anche la nostra Barbera, diffusa da tempo non soltanto in Piemonte ma anche in Lombardia e in Emilia, è stata a lungo occultata sotto la babele dei sinonimi che a tutt’oggi rendono difficile fare chiarezza sulle sue vicende più remote. E’ probabilmente tra XV e XVI secolo, tuttavia, che il vitigno assume in area centropedemontana il nome attuale: la sua più antica attestazione finora nota risale al 1514, ed è contenuta nei catasti di Chieri.

Secondo lo storico Aldo di Ricaldone il vino ottenuto da tale varietà fu chiamato “Barbera” per la somiglianza con il “vinum Berberis”, cioè succo fermentato di Berberi, o Crespino, di un bel colore rosso cerasuolo e sapore acido e astringente. Tale succo, usato in cucina o come medicinale, era molto noto e diffuso nel Piemonte tardo-medievale, al punto da aver potuto estendere il suo nome anche ad un vino che presentava caratteri simili. Altra ipotesi fa derivare il nome dal vocabolo medievale Bàrberus, usato con il significato di “irruente, aggressivo, indomito”, come lo sono i Bàrberi che da sette secoli corrono il Palio di Asti, e come indubbiamente lo è anche la nostra Barbera.

Il vino dell’Astesana

Proprio perché.. “bàrbera” come un giovane cavallo sfrenato, la Barbera non sembra aver goduto grandi fortune nel Piemonte tardo-medievale : la sua elevata acidità varietale, in un’epoca in cui il vino si beveva giovanissimo, doveva probabilmente limitarne i consumi e la diffusione. Si aggiunga che la stragrande maggioranza delle terre piemontesi, a partire dal XV secolo, si convertono alla viticoltura dell’alteno, basata su forme d’allevamento molto espanse, molto produttive ma qualitativamente svantaggiose ed assai poco idonee per la Barbera. L’unica area di tenace resistenza fu proprio l’Astesana, dove, come si è visto, la Barbera era tenuta “..in grandissimo onore” già dal XIII secolo, e dove l’Alteno non riuscì mai ad affermarsi.

STORIA DELLA BARBERA “REGINA” delle COLLINE PIEMONTESI

Viene da pensare che le due cose siano in stretta relazione fra loro: da una parte la Barbera non si presta all’alteno, dall’altra gli Astigiani, per rimanerle fedeli, respingono questa tecnica colturale mantenendo la coltivazione a spalliera già descritta in loco da Pier de Crescenzi nel XIII secolo. Il risultato di questa interazione, nell’epoca considerata, pare indurre la produzione di Barbere molto alcoliche e corpose, ma anche molto acide: non stupisce che alla fine del XV secolo il medico torinese Pietro de Monte da Bairo giudichi i vini astigiani troppo pesanti, e che negli stessi anni Carlo VIII re di Francia e signore di Asti li trovi troppo aspri e verdi per il suo gusto. La viti-vinicoltura astigiana tra medio evo ed età moderna si caratterizza dunque per una spiccata dicotomia al suo interno. Da una parte è rivolta ad una produzione prestigiosa ma minoritaria di vini “di lusso” come il Nebbiolo Dolce, il Moscato passito, la Vernaccia, la Malvasia, il Razzese, degni di comparire alla tavola esigente dei duchi di Savoia; dall’altra persegue quella più “mercantile” e diffusa di vini “comuni” ma di buona qualità che pare avere al suo vertice la Barbera, poi, a decrescere, tutta una serie di varietà oggi estinte o minoritarie: Freisa, Crova, Neirone, Bonarda, Balsamina, Ghedone, Neirola, Balau, tanto per citarne alcune.

Alla conquista del Piemonte

Dal XVII secolo le fortune della Barbera si consolidano definitivamente in Astesana, estendendosi ben presto alle regioni vicine, a cominciare dal Monferrato, poi via via all’Alessandrino, Tortonese, Vercellese, Novarese, etc.

Solo le Langhe resisteranno all’avanzata, fino a tempi molto recenti: nel 1882 Lorenzo Fantini, autore di una “Monografia sulla viticoltura ed Enologia nella Provincia di Cuneo”, afferma che nel circondario di Alba la Barbera fu “..introdotta un ventennio circa fa…”: questo nonostante già nel 1690 il conte Pietro Francesco Cotti di Asti ne avesse fatto impiantare vigne nelle sue tenute di Neive, importando le resioire ( barbatelle) dai suoi possedimenti astigiani.

Nel corso del Settecento la diffusione della Barbera conosce una rapida impennata soprattutto in Astesana, Monferrato, Alessandrino e Tortonese. Le quattro aree si spartiscono i mercati vinicoli più importanti: l’Astesana monopolizza quello di Torino, il Monferrato rifornisce le ricche pianure della Lomellina e del Vigevanasco, Alessandrino e Tortonese si contendono l’enorme sete di Milano, che nel 1782 consuma ben 130.000 ettolitri di vini piemontesi. Per essere “esportato”, il vino di queste quattro regioni deve rispondere ad un requisito fondamentale: deve avere un basso prezzo all’origine, che sommato agli ingenti costi di trasporto e di pedaggio possa rimanere a livelli accettabili in fase di consumo. La Barbera, con la sua rusticità e costanza produttiva, è la varietà che si presta meglio all’esigenza, e che conosce dunque un costante incremento. Naturalmente la destinazione a fasce di consumo medio-basse ne frena e a tratti ne inibisce l’aspetto qualitativo, che nel corso del Settecento sembra decadere a tutto vantaggio di altri vini piemontesi rivolti a mercati più ricchi: Nebbiolo, Dolcetto, Moscato, Grignolino.

La scalata alla nobiltà

Solo alla fine del secolo inizia un lento riscatto. L’abbattimento dei costi di trasporto e delle tariffe doganali ed il miglioramento delle tecniche vitivinicole nelle zone di produzione inducono un notevole innalzamento qualitativo. Nel 1819 G.Secondo De Canis nella sua “Corografia Astigiana” traccia un quadro ampiamente lusinghiero, e soprattutto individua e delimita per la prima volta una vera e propria “area d’eccellenza” della Barbera, antesignana dell’attuale zona a DOC. “L’astigiano territorio, essendo per ogni dove sparso d’ameni poggi, le viti su d’essi eccellentemente allignano, ed i vini che se ne traggono sono fuor d’ogni dubbio i migliori d’ogni altro paese qualunque ei sia; le Barbere poi meravigliosamente s’incontrano nei contorni d’Asti, Scurzolengo, Portacomaro, Migliandolo, Castiglione e Quarto, non meno che sui colli meridionali da San Marzanotto a Rocca d’Arazzo, e su quelli di Vigliano, Mongardino, Montegrosso, Montaldo, Mombercelli, Belvedere e Vinchio”.

STORIA DELLA BARBERA “REGINA” delle COLLINE PIEMONTESI

Da notare l’assenza di comuni oggi celebri per le loro Barbere come Costigliole, Castagnole Lanze, Calosso, San Marzano e Nizza, dove all’epoca dominano ancora il Nebbiolo , il Dolcetto, il Moscato, le Malvasie bianche e nere.

La Barbera trova proprio in questi paesi un autorevole sponsor nel marchese Filippo Asinari di San Marzano ( 1767-1828) .

Il nobile astigiano, una delle personalità più illustri del regno di Sardegna, fu anche un appassionato produttore di vini nei suoi feudi di Costigliole e San Marzano e un intelligente promoter dell’enologia piemontese. Per rintuzzare le accuse che da più parti erano levate contro i vini astigiani, ritenuti di difficile conservazione, e inidonei tanto all’invecchiamento quanto ai lunghi trasporti, nel 1819 l’Asinari ebbe un colpo di genio da fare invidia ai più scaltri pubblicitari di oggi: organizzò una spedizione dei suoi vini a Rio de Janeiro, composta di due botti di Nebbiolo e due di Barbera di Costigliole e San Marzano.

Dopo due mesi di navigazione il vino giunse a Rio “..non solo in ottimo stato, ma nella perfetta sua maturità e di squisitissimo gusto…” ; soprattutto la Barbera “..aveva una forza singolare congiunta al profumo ed al colore dei vini più vecchi e celebrati”. Il segreto della riuscita stava soprattutto nell’impeccabile qualità dei vini, ottenuti dal nobiluomo con tecniche razionali e moderne importate dalla Francia. Il lusinghiero successo dell’operazione ebbe un enorme impatto nel mondo vinicolo astigiano e più in generale piemontese, che forse per la prima volta nella sua storia si rendeva conto delle potenzialità dei suoi vini. Già all’indomani dell’evento 55 affaristi astigiani diedero vita ad una compagnia di esportazione, dotata di un ricco capitale di 110.000 lire dell’epoca, con l’obiettivo di introdurre la Barbera d’Asti sul mercato inglese, sfidando il Bordeaux che in Gran Bretagna godeva di posizioni monopolistiche. Non conosciamo l’esito dell’impresa, ma sappiamo che nel corso dell’Ottocento il prestigio della Barbera andò elevandosi costantemente, fino ad allinearsi a quello degli altri vini nobili del Piemonte.

La prima enoteca

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Nel 1844 a Costigliole d’Asti fu costituita la Società degli Enofili, con aderenti in tutta l’Astesana, che ebbe il principale merito di fondare la prima Enoteca pubblica della storia. La struttura, definita Laghenoteca ( cioè “biblioteca delle bottiglie”) ospitava 2.500 bottiglie di pregiati vini piemontesi ed astigiani, di cui la Barbera da sola costituiva il 50 %. Ogni bottiglia, come un libro prezioso, era dotata di un numero di riferimento, a cui corrispondeva una scheda illustrativa contenente la sua storia, i dettagli ampelografici , quelli tecnici di vinificazione, e più in generale tutte le informazioni “..che possa desiderare la mente più curiosa di rendersi conto d’ogni cosa.” Tali bottiglie erano a disposizione dei soci, i quali potevano gustarle in gruppo con l’obbligo di stilare un rapporto dettagliato sulle caratteristiche riscontrate, e con l’onere di reintegrarle con altre di pari qualità.

Nel 1848 la realizzazione della ferrovia Torino-Genova apriva enormi possibilità per i vini piemontesi, che avevano finalmente una via d’accesso rapida ed economica al principale porto italiano. Da qui fu soprattutto la Barbera ad alimentare un cospicuo e redditizio flusso commerciale verso il sud della Francia, trascinando in seguito con il suo successo anche le fortune di un altro grande vino astigiano: il Moscato. I successi internazionali della Barbera ne incrementarono ulteriormente la diffusione: a partire dal 1860 si diffonde nelle Langhe, sia pure in maniera cauta, dove, confrontandosi immediatamente con il Barolo ed il Nebbiolo, trova da subito una notevole vocazione qualitativa.

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STORIA DELLA BARBERA “REGINA” delle COLLINE PIEMONTESI

Nel 1882 il già citato Lorenzo Fantini scriveva: “.. I vini di Barbera prodotti nel circondario d’Alba hanno caratteri tali che li elevano all’altezza dei vini di lusso da bottiglia. Il vino riesce grosso, carico di colore, molto dosato d’alcol, con un sapore particolare che ricorda quello del catrame.

E’ però fabbricato in piccola scala, perché è poco attiva la ricerca che se ne fa, e quindi il prezzo assai più basso del Barolo e del Nebbiolo.

Nella stessa epoca la Barbera inizia la colonizzazione dell’Alto Monferrato, a discapito del Dolcetto e delle Malvasie. Nel Basso Monferrato, dove da quasi due secoli è ampiamente diffusa, diventa in questo periodo il vitigno dominante. Nel 1891 Federico Martinotti poteva ben scrivere che nel Basso Monferrato: “I piantamenti oggidì da noi si fanno quasi esclusivamente con Freisa e con Barbera; questa in alto, e quella in basso. La Barbera, vitigno sotto ogni riguardo eccellente, dà un vino che se giovane è troppo aspro, ma che diventa però eccellente invecchiando…”.

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Il lungo inverno della Barbera

Dopo il 1880 le sorti di questo vino iniziarono un rapido declino. Una concomitanza di fattori, fra cui l’eccesso di produzione, la guerra doganale con la Francia esplosa nel 1888, la concorrenza sempre più agguerrita dei prodotti del Sud Italia, indussero un inarrestabile calo dei prezzi delle uve di Barbera , che in solo vent’anni scesero del 30%. Il particolare comparto produttivo, detenuto da un ceto sterminato di piccoli e piccolissimi vinificatori, reagì alla crisi con il costante aumento delle produzioni ed il conseguente abbassamento qualitativo, con il ricorso all’utilizzo sempre più esteso del taglio con mosti meridionali. I fasti ottocenteschi furono ben presto annullati e vanificati da una costante spirale di decadenza, aggravata dalle due guerre mondiali, dalla crisi vissuta dal mondo rurale negli anni 20 e 60.

La Barbera fu relegata nel limbo dei vini “da pasto”, destinata a fasce basse e dequalificanti di consumo, associata ad un’immagine perdente di grossolanità e volgarità.

Le molte punte di eccellenza che pure continuavano caparbiamente ad esistere erano annullate dall’azione di speculatori senza scrupoli , che spacciavano con il suo nome ignobili ed improponibili vinacci di altre regioni.

I segnali del risveglio partirono negli anni sessanta del Novecento ad opera del grande Arturo Bersano di Nizza, il primo a saper infondere nella Barbera le suggestioni ed il plusvalore del territorio, della sua storia, della cultura e della civiltà contadina. In seguito cantori appassionati e poetici come Paolo Monelli, Giovanni Brera, Mario Soldati, Luigi Veronelli, seppero celebrare la disperata resistenza della Barbera autentica, svilita e offesa si, ma ancora caparbiamente indomita e incrollabile come la gente che da secoli la celebrava e la onorava del suo lavoro e della sua stessa vita. In quegli anni di clamorose sofisticazioni, di spregevoli frodi, di continue contraffazioni Guido Ceronetti lamentò in un suo scritto la scomparsa del vino genuino; Arturo Bersano gli rispose con un passo rimasto celebre “…mandiamogli un vino nascosto, vino da resurrezione, vino che daresti soltanto a tua madre malata…” Quel vino, manco a dirlo, era la Barbera. Quella sua anima misteriosa e potente, quella sua spiritualità fatta di terra e di lune, di segreti e di stagioni l’aveva salvata. Nel 1986 dopo lo scandalo del metanolo, l’ennesimo, il peggiore, quella sua anima insorse ed esplose grazie ad un altro grandissimo personaggio: Giacomo Bologna. Il resto è storia recente, e chi ama la Barbera la conosce.

ESTEBAN CHAVES VINCE LA TAPPA REGINA 14° TAPPA DEL 99° GIRO D’ITALIA SUL TRAGUARDO DI CORVARA

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ESTEBAN CHAVES VINCE LA TAPPA REGINA DEL GIRO D’ITALIA

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STEVEN KRUIJSWIJK È LA NUOVA MAGLIA ROSA

Spettacolo sulle Dolomiti, attacchi e contrattacchi tra gli uomini di classifica

Corvara (Alta Badia), 21 maggio 2016 – Il corridore colombiano Esteban Chaves (Orica Greenedge) ha vinto la quattordicesima tappa del 99º Giro d’Italia, da Alpago (Farra) a Corvara (Alta Badia) di 210 km. Al secondo e terzo posto si sono classificati rispettivamente Steven Kruijswijk (Team Lotto NL – Jumbo) e Georg Preidler (Team Giant – Alpecin).

Steven Kruijswijk (Team Lotto NL – Jumbo) è la nuova Maglia Rosa di leader della Classifica Generale.

RISULTATO FINALE
1 – Esteban Chaves (Orica Greenedge) – 210 km in 6h06’16”, media 34,401 km/h
2 – Steven Kruijswijk (Team Lotto NL – Jumbo) s.t.
3 – Georg Preidler (Team Giant – Alpecin) s.t.

MAGLIE

  • Maglia Rosa, leader della classifica generale, sponsorizzata da Enel – Steven Kruijswijk (Team Lotto NL – Jumbo)

  • Maglia Rossa, leader della classifica a punti, sponsorizzata da Algida – Giacomo Nizzolo (Trek – Segafredo)

  • Maglia Azzurra, leader del Gran Premio della Montagna, sponsorizzata da Banca Mediolanum – Damiano Cunego (Nippo – Vini Fantini)

Il vincitore, subito dopo il traguardo, ha dichiarato: “Vincere una tappa al Giro d’Italia è stato il mio sogno si da quando ho cominciato la mia carriera da professionista con il Team Colombia, proprio qui in Italia. Amo questa corsa! Vincere la tappa più dura è ancora meglio. Devo ringraziare tutte le persone che mi hanno permesso di arrivare fino a questo punto. Grazie anche al mio direttore sportivo Matt White che mi ha dato informazioni preziosissime per la vittoria”.

La Maglia Rosa ha dichiarato: “Mi sentivo davvero bene. Ho chiesto al mio direttore sportivo se era meglio salvare energie per la crono di domani o meno. Abbiamo deciso di andare a tutta. Mi sembrava di stare un po’ meglio di Vincenzo Nibali e ho pensato che era il giorno buono per avvantaggiarsi. Fortunatamente mi ha seguito un corridore molto forte. È una soddisfazione enorme indossare la Maglia Rosa, specialmente in un luogo meraviglioso come le Dolomiti”.

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